Da un po’ di tempo mi ritrovo ad affrontare una difficoltà. E’ questa qui: a differenza di come ho quasi sempre agito, non mi sento in grado di osareriprovareripartireandareavanti. Ma non è questa la difficoltà che affronto. La difficoltà è affrontare chi mi ripete che non va bene: non devo mollare, devo ritentare, devo lanciarmi. “Tu sei forte, sei capace, hai sempre affrontato bene…”. Non è previsto che io non sia più in quel modo nè che ora non riesca. Non mi stupisce che mi dicano questo, che la pensino così: io stessa mi ritrovo una voce (la mia) che ogni tanto mi fa questi discorsi. Abbiamo mangiato pane e prestazioni, abbiamo respirato aria di “fare o non fare, non vale provare” (come dice Yoda). Siamo da tempo immersi in una cultura dove vale riuscire non provare, dove ciò che conta è il risultato non il modo in cui viene raggiunto.
Certamente, allora, se il valore è riuscire il non riuscire diventa fallimentare. E pericoloso. Ripetutamente infatti, se provo a spiegare che ORA NON POSSO PER QUESTI MOTIVI , arriva il momento in cui mi si dice: “attenta, che rischi di deprimerti, di chiuderti sempre di più e diventa difficile uscirne”. E’ un rischio possibile, senza dubbio. Ma non è la diretta e subitanea conseguenza dell’accettare di non riuscire, di non potere ORA. Non è nero oppure bianco. Ci sono le sfumature! Ci sono sempre le sfumature, le terre di mezzo dove una cosa sfuma (appunto) fino a diventare qualcos’altro. Un esempio? Ieri sono uscita a fare una passeggiata. Ci sono le prime primule e margherite. E’ già primavera? E’ inverno? Sono segnali di cambiamento in atto. Non “fare o non fare” netto, ma un percorso in corso. Torniamo alla mia difficoltà.
Intanto perchè ci scrivo un post? “Ma chi ti si fila!” Non lo so chi mi si fila. So che io ricevo molti stimoli dalle esperienze altrui. Magari a qualcuno posso essere utile. Ecco perchè scrivo un post.
Quindi… la mia difficoltà nasce quando vedo che, continuando a puntare sui risultati, le persone non considerano la stanchezza come un’informazione importante. Un segnale da valutare mentre si percorre la strada intrapresa.
Quel segnale, la stanchezza, parla di noi. Ci chiede quante energie abbiamo, chiede cosa è importante e cosa no; chiede cosa non serve più e cosa è ancora fondamentale, cosa ripetere e cosa modificare; ci chiede se e come ricalcolare. SE lo ascoltiamo, ci fermiamo.
E nel fermarsi inizia un lavoro: quello di cercare le risposte alle domande, che Byung-Chul Han ne “La società della stanchezza” definisce la pedagogia del vedere. Lo dico con parole mie: fermarsi permette di spostare il punto di vista dall’arrivo a noi che siamo nel percorso, per raccogliere informazioni e creare qualcosa di nuovo e sostenibile, con rinvigorita motivazione e curiosità. E’ un fare, molto impegnativo. Non così visibile come portare a casa il risultato davanti agli occhi di tutti, ovviamente. E’ un risultato meno visibile ma non meno significativo, secondo me.
Ecco, questo è ciò che non sono riuscita a dire a chi mi metteva in guardia dal pericolo che correvo o dallo sbaglio che stavo facendo. Dopo averlo scritto nero su bianco forse sarà più possibile anche dirlo subito a voce…
Ma vuoi vedere che ho scritto per aiutare me? 😉